Il vento racconta di Valdemar Daae e delle sue figlie – Andersen

Redazione A cura di “La Redazione” Pubblicato il 13/03/2018 Aggiornato il 13/03/2018

È una fiaba classica dello scrittore danese Hans Christian Andersen e, come spesso accade nelle sue favole, finisce male. Non semplice, va letta insieme ai bambini

Il vento racconta di Valdemar Daae e delle sue figlie – Andersen

Il vento racconta di Valdemar Daae e delle sue figlie

Quando il Vento corre sull’erba, allora questa si increspa come l’acqua, quando corre sul grano, allora questo ondeggia come un lago, questa è la danza del Vento; ascoltalo quando racconta: esso racconta cantando e risuona diversamente tra gli alberi della foresta piuttoso che tra aperture, fenditure e crepe del muro. Vedi come lassù il Vento dà la caccia alle nuvole come se fosse un gregge di pecore! Senti come il Vento quaggiù urla attraverso il portone aperto come se fosse il guardiano notturno che suona il corno! Esso urla in modo strano giù nel comignolo e dentro al caminetto; per questo il fuoco divampa e scintilla, illumina quasi interamente la stanza e si sta tanto bene seduti al caldo ad ascoltare. Devi soltanto lasciar raccontare il vento: esso conosce le fiabe e le storie, più di tutti noi insieme. Ascolta ora come racconta:

“Ffu-u-o-ri! scomparire!” – ecco il ritornello della canzone.

“Vi è sulle rive dello stretto del grande Belt una vecchia proprietà con i muri spessi e rossi!” dice il Vento, “ne conosco ogni pietra, vidi ognuna di esse prima quando stava nella fortezza di Marsk Stig il traditore sul promontorio; questa dovette essere tirata giù! la pietra venne rimessa e diventò un nuovo muro, una nuova proprietà, altrove, fu la proprietà di Borreby, corre si presenta ancora oggi! Ho visto e conosciuto i signori e le signore di alto lignaggio, le famiglie cbe si sono alternate per abitarvi, ora racconto di Valdemar Daae e delle sue figlie! Egli teneva la testa così alta, era di stirpe regale! era capace di ben altre cose che non di dare la caccia al cervo e di vuotare un boccale; – in fondo si potevano arrangiare da soli, diceva lui stesso. La sua sposa avanzava dritta, con una veste di seta ricamata d’oro in casa, sul pavimento lucido a disegni; le tappezzerie erano magnifiche, i mobili costosi, erano intagliati con grande arte. Ella aveva portato argenteria e oro in casa; in cantina vi era la birra tedesca quando c’era qualcosa; neri cavalli focosi nitrivano nella stalla; la ricchezza era grande nella proprietà di Borrreby quando c’era la ricchezza. E vi erano bambini; tre belle fanciulle, Ide, Johanne e Anna Dorothea: ricordo ancora i nomi. Era gente ricca, era gente distinta, nata e cresciuta nella magnificenza! “Ffuu-o-ri! scomparire!” cantò il Vento e poi raccontò di nuovo. “Qui non vidi, come nelle altre vecchie proprietà, l’illustre signora seduta nella sala dei cavalieri con le sue ragazze a girare la rocca, ella suonava il liuto melodioso accompagnandolo col suo canto, non sempre però con i vecchi canti danesi, ma con canzoni in lingua straniera. Vi era vita e festa, venivano ospiti distinti da vicino e da lontano, la musica risuonava, i boccali risuonavano, non riuscii a coprire le loro voci!” disse il Vento. “Vi era superbia insieme a spavalderia e chiasso, signori, ma non vi era Nostro Signore! Era proprio la vigilia della festa di maggio”, disse il Vento, “io venni da Ovest, avevo visto le navi ridotte a carcasse sulla costa occidentale dello Iutland, mi ero affrettato passando sulla brughiera e sulla costa verde di boschi, passando sull’isola di Fionia, e passavo ora sullo stretto del Grande Belt, a tutta velocità e soffiando forte.

Poi mi misi a riposare sulla costa dell’isola di Selandia, vicino alla proprieú di Borreby, dove il bosco aveva ancora querce magnifiche. I giovani garzoni della zona vennero qui fuori a raccogliere cime e rami, i più grandi e i più secchi che potessero trovare. Se li portarono in città, ne fecero un cumulo, vi appiccarono fuoco, e le ragazze e i garzoni danzarono intorno cantando. Io stavo fermo”, disse il Vento, “ma piano piano toccai un ramo, quello posto dal più bello dei garzoni; la sua legna avvampò, emettendo la fiamma più grande; egli fu l’eletto, ebbe il nome d’onore di Re della foresta, fu il primo a scegliere tra le ragazze la sua compagna, l’Agnellina della festa; la gioia e l’allegria furono più grandi lì di quelle nella ricca proprietà di Borreby.” “E alla proprietà arrivò in una carrozza dorata con sei cavalli la nobile signora e le sue tre figlie, tanto fini, tanto giovani, tre deliziosi fiori: la rosa, il giglio e il giacinto pallido. La madre stessa era un tulipano vanitoso, non salutò una sola persona di tutta la schiera che fermò il suo gioco per fare la riverenza e mostrarle rispetto, si dovette credere che la signora fosse di gambo fragile. La rosa, il giglio e il giacinto pallido, sì, li vidi tutti e tre! di chi sarebbero un giorno state l’Agnellina della festa, pensai; il loro Re della festa sarà un cavaliere orgoglioso, forse un principe! – Ffu-u-o-ri – scomparire! scomparire!

Si, la carrozza proseguì con loro e la danza proseguì con i contadini. L’estate fu portata a cavallo nel paese di Borreby, di Tjaereby, in tutti i paesi lì intorno. Ma di notte, quando mi alzai”, disse il Vento, “la signora di alto lignaggio si mise a letto per non alzarsi mai più; fu presa così come tutti gli uomini tengono presi, non è una novità. Valdemar Daae stette tutto serio e pensoso per un breve momento; l’albero più orgoglioso può essere piegato ma non rotto, disse una voce dentro di lui; le figlie piansero e nella proprietà tutti si asciugarono gli occhi, ma la signora Daae era scomparsa, – e io scomparii! ffu-u-o-ri!”, disse il Vento. “Tornai, tornai spesso, sopra l’isola di Fionia e l’acqua dello stretto del Belt, mettendomi seduto sulla spiaggia di Borreby, vicino al meraviglioso bosco di querce; lì il falco pescatore, il colombaccio, i corvi blu e perfino la cicogna nera costruiscono i loro nidi. Era la prima parte dell’anno, alcuni avevano le uova e alcuni avevano i piccoli. Ebbene, come volavano, come strillavano; si sentirono colpi d’ascia, colpo dopo colpo; il bosco andava abbattuto, Valdemar Daae voleva costruirsi una nave preziosa, una nave da guerra con tre castelli di prua che il re probabilmente avrebbe comprato, ed ecco perché il bosco, il segno dei marinai, la casa degli uccelli, andava abbattuto. L’averla volò via spaventata, il suo nido venne distrutto; il falco pescatore e tutti gli uccelli del bosco persero la loro casa, volarono dappertutto insicuri strillando di angoscia e di rabbia, io li capii anche troppo bene. Le cornacchie e le taccole gridarono ad alta voce per scherno: ‘ Fuori dal nido! Fuori dal nido! Frò! Frò!”.

E in mezzo al bosco, con la schiera dei braccianti, stette Valdemar Daae e le sue tre figlie, e risero tutti degli strilli selvaggi degli uccelli, ma la sua figlia minore, Anna Dorothea, sentì la desolazione nel suo cuore a causa di tutto questo, e quando vollero pure abbattere un albero mezzo morto sul cui ramo spoglio la cicogna nera aveva costruito il suo nido, e dove i piccoli sporgevano la testa, ella pregò per questa, pregò con le lacrime agli occhi. E così l’albero ebbe il permesso di rimanere in piedi con il nido per la cicogna nera. Era solo una piccola cosa. Tagliavano, segavano, si costruiva una nave con tre castelli di prua. Il costruttore stesso era di famiglia umile ma di aspetto nobile; gli occhi e la fronte parlavano di quanto fosse intelligente e Valdemar Daae amava sentirlo raccontare, lo fece anche la piccola Ide, la maggiore, la figlia quindicenne: e mentre egli costruiva la nave per il padre, costruì per se stesso il castello dei suoi sogni, in cui egli e la piccola Ide stavano seduti, marito e moglie, e sarebbe stato anche così se il castello fosse stato di pietre murate con bastione e fosso, con bosco e giardino. Ma con tutta la sua intelligenza il mastro era ugualmente soltanto un misero uccello, e cosa fa il passero in mezzo alla danza delle gru? Ffu-u-o-ri! – io me ne volai via ed egli se ne volò via, e poiché non osò rimanere, e la piccola Ide superò tutto questo, poiché dovette superarlo !” “Nella stalla i cavalli neri nitrivano, valeva la pena guardarli, e venivano guardati. Il re in persona aveva mandato l’ammiraglio per vedere la nuova nave da guerra e per parlare del suo acquisto, egli parlava ad alta voce in ammirazione dei cavalli impetuosi; lo sentii bene!” disse il Vento; “seguii i signori attraverso la porta aperta seminando le pagliuzze davanti ai loro piedi come stecche d’oro. Valdemar Daae voleva l’oro, l’ammiraglio voleva i cavalli neri, ecco perché egli li lodava, ma ciò non venne capito e allora nemmeno la nave venne comprata, rimase lì, tutta brillante vicino alla riva, coperta da tavole, un’arca di Noè che non venne mai messa in acqua. Ffu-u-ori! scomparire! scomparire! e faceva pietà!

Al momento dell’inverno, quando i campi erano coperti di neve, il ghiaccio galleggiante riempiva lo stretto del Belt e io l’avevo portato con un soffio sulla riva”, disse il Vento, “arrivarono i corvi e le cornacchie, gli uni più neri degli altri, grandi schiere; si sedettero sulla nave deserta, morta, abbandonata vicino al mare e gridarono con voce rauca parlando della foresta che non c’era più, dei tanti preziosi nidi d’uccello che erano rimasti deserti, dei vecchi senza tetto, dei piccoli senza tetto e tutto quello per causa di quella baracca di quella imbarcazione orgogliosa che non avrebbe mai navigato. Io feci turbinare i fiocchi di neve; la neve stava ammucchiata come grandi laghi intorno a essa, coprendola! le feci sentire la mia voce, quello che una tempesta ha da dire; so di aver fatto la mia parte in modo che potesse acquisire delle esperienze di navigazione. Ffu-u-o-ri! scomparire!

E l’inverno scomparì, l’inverno e l’estate passarono e passano come io passo, come i fiocchi di neve cadono, come i petali del fiore del melo cadono, come fiocchi e come cadono le foglie! scomparire, scomparire, scomparire, anche gli uomini! Ma le figlie erano ancora giovani, la piccola Ide una rosa bella da vedere, come quando la vide il costruttore della nave. Spesso acchiappavo i suoi lunghi capelli marroni quando stava pensosa sotto il melo nel giardino senza sentire che io le seminavo i fiori sui capelli, che si scioglievano, ed ella guardava il sole rosso e il fondo dorato del cielo tra gli alberi e i cespugli scuri del giardino.

Sua sorella era come un giglio, brillante e dritto, Johanne; aveva un bel portamento e la testa alta, era di gambo fragile come la madre. Passeggiava volentieri nella grande sala, dove erano appesi i ritratti di famiglia; le signore erano rappresentate in velluto e seta con un piccolo cappelletto ricamato con le perle sui capelli intrecciati; erano belle signore! si vedevano i loro mariti vestiti d’acciaio oppure con il mantello prezioso con la fodera in pelle di oiattolo e il collo plissettato blu; la spada era cinta intorno alla coscia e non intorno ai reni. Chissà dove sarebbe stato appeso un giorno il ritratto di Johanne e come si sarebbe presentato il nobile marito? sì, ella pensava a questo, ella ne parlava un pochino, io lo sentii quando corsi per il lungo corridoio dentro la sala per tornarmene indietro!

Anna Dorothea, il giacinto pallido, soltanto una bambina di quattordici anni, era silenziosa e pensierosa; i grandi occhi blu come l’acqua sembravano pieni di pensieri, ma sulla bocca vi era un sorriso da bambina, non riuscivo a soffiarlo via, e non volevo nemmeno farlo. La incontrai nel giardino, sulla strada infossata e sul campo della proprietà, ella coglieva erbe e fiori, quelle che sapeva che potevano servire a suo padre per le bevande e le gocce, sapeva distillare; Valdemar Daae era orgoglioso e borioso, ma anche informato e sapeva tante cose; lo notavano bene, ne mormoravano; nel suo camino c’era il fuoco acceso anche d’estate; la porta della camera era chiusa; prendeva sempre più sostanza man mano che passavano i giorni e le notti, ma non ne parlava molto; bisogna esplorare le forze della natura in silenzio, presto avrebbe senz’altro scoperto la cosa suprema: l’oro rosso. Per questo il camino fumava, per questo crepitava e vampava! sì, c’ero anch’io!” raccontò il Vento, “lasciamo passare! lasciamo passare! cantavo attraverso il comignolo. Finirà col diventare fumo, puzzo, brace e cenere! Finirai bruciato tu stesso! ffu-u-o-ri! scomparire! scomparire! ma Valdenwr Daae non lasciò che passasse! I meravigliosi cavalli nella stalla, dove erano andati a finire? la vecchia argenteria e gli oggetti d’oro negli armadi e nelle camerette, le mucche nei campi, i beni e la proprietà? – eh sì, potevano essere fusi! fusi nel crogiolo; eppure non se ne sarebbe ricavato l’oro.

Il granaio e la dispensa, la cantina e la soffitta si vuotarono. Meno gente, più topi. Un vetro si crepò, uno si spaccò, non dovetti più entrare per la porta!” disse il Vento. “Non c’è fumo senza arrosto, il fumo c’era, quello che inghiotte tutti gli arrosti, per l’oro rosso. Io soffiai attraverso il portone del castello come un guardiano notturno che suona il corno, ma non vi era nessun guardiano notturno!” disse il Vento. “Girai il gallo della girotta sulla guglia, essa tuonava come se il guardiano notturno russasse sulla torre, ma non vi era nessun guardiano notturno: erano i ratti e i topi; la miseria apparecchiava la tavola, la miseria stava negli armadi e nella dispensa, la porta si staccava dal perno, venivano fuori fessure e crepe; io entravo e uscivo”, disse il Vento, “ecco perché son ben informato!” In mezzo al fumo e alle ceneri, al dolore e alle notti insonni la barba e i capelli intorno alla fronte si incanutirono, la pelle divenne opaca e gialla. Gli occhi cercarono con rapacità l’oro, l’oro atteso. Io gli soffiai il fumo e le ceneri in piena faccia e sulla barba; e al posto dell’oro arrivarono debiti. Cantai attraverso i vetri spaccati e le crepe aperte soffiando fino alla cassapanca delle figlie, dove i vestiti giacevano scoloriti e logori, dovendo continuare a resistere. Sopra la culla di quelle bambine non era stata cantata quella canzone! La vita da signori divenne una vita di miseria! io solo cantavo ad alta voce nel castello”, disse il Vento. “Li rinchiusi, bloccati dalla neve, si dice che riscalda; non avevano legna, il bosco da cui avrebbero dovuto prenderla era stato abbattuto. Gelava da spaccare le pietre; svolazzavo attraverso aperture e corridoi, sopra muri laterali e muri maestri per tenermi in forma; là dentro stavano nei loro letti, a causa del freddo, queste nobili figlie; il padre si infilava sotto la coperta di pelle. Niente da maigiare e niente da bruciare, questa sì che è vita da signori! ffu-u-o-ri! lasciamo passare! – Ma il signor Daae non poté! “Dopo l’inverno viene la primavera!” egli disse, “dopo la penuria vengono i tempi buoni! – ma si fanno aspettare! – Ora la proprietà è diventata un’ipoteca! Ora è il momento estremo; e poi arriva l’oro! A Pasqua!”

Io lo sentii mormorare nella ragnatela, “Tu bravo piccolo tessitore! Tu insegni a perseverare! se la tua tela viene strappata, ricominci di nuovo e finisci! di nuovo strappata – e tu riprendi infaticabile, dall’inizio! – dall’inizio! è quello che bisogna fare! e si viene ricompensati!”

Era la mattina di Pasqua, le campane suonavano, il sole giocava nel cielo. In un calore febbrile egli aveva vegliato, bollito e raffreddato, mescolato e distillato. Lo sentii che sospirava come un’anima disperata, lo sentii che pregava, ebbi la sensazione che egli trattenesse il respiro. La lucerna si era spenta, egli non se ne accorse; soffiai sui carboni ardenti, essi illuminarono il suo viso bianco come un cencio, che prese un barlume di colore, gli occhi erano affossati nelle orbite,ma ora diventarono più grandi, grandi come se volessero saltare. Guarda, il vetro dell’alchimia lampeggia là dentro! è ardente, puro e pesante! egli lo sollevò con la mano che tremava, egli gridò con la lingua che tremava: “oro! oro!” gli girò la testa alla vista, avrei potuto rovesciarlo con un soffio”, disse il vento, “ma soffiai soltanto sui carboni ardenti, lo seguii attraverso la porta fin dentro dove le figlie avevano freddo. La sua tunica era coperta di cenere, stava sulla barba e nei capelli aggrovigliati. Si drizzò molto in alto, sollevò il suo ricco tesoro nel vetro fragile: “trovato! vinto! E’ oro!” egli gridò, tese in aria il vetro che lampeggiava nei raggi del sole; e la mano tremolò e il vetro dell’alchimia cadde per terra rompendosi in mille pezzi; si era rotta l’ultima bolla del suo benessere. Ffu-u-o-ri! scomparire! – E io scomparii fuggendo dalla proprietà dell’alchimista.

Nell’ultima parte dell’anno, durante le giornate brevi quassù, quando la nebbia arriva con la sua spugna e strizza gocce bagnate sulle bacche rosse e sui rami senza foglie, mi sentii di buonumore, cambiai l’aria, spazzai col soffio il cielo e ruppi i rami marciti, e non è un grande lavoro, però va fatto. Fu fatto anche un altro tipo di pulizie dentro alla proprietà di Borreby da Valdemar Daae. Il suo nemico, Ove Ramel da Basnaes, si presentò e aveva pagato l’ipoteca sulla proprietà e sui mobili. Io tambureggiai sui vetri spaccati, battei le porte caduche, fischiai attraverso i crepacci e le fessure: -Ffu-i! -. Al Signor Ove non dovette venire voglia di rimanervi. Ide e Anna Dorothea piansero lacrime di afflizione; Johanne stette dritta e pallida, si morse il pollice finché sanguinò, che bell’aiuto! Ove Ramel concesse al signor Daae di rimanere nella proprietà vita natural durante, ma non ebbe ringraziamenti per la proposta; io ascoltai il seguito; vidi il signore privo di proprietà alzare la testa più orgoglioso, battere un colpo con la nuca e io battei contro la proprietà e contro i vecchi tigli, così che il ramo più grosso si ruppe, e non era marcito; esso giacque davanti al portone come una scopa, nel caso in cui qualcuno volesse dare una pulita, e si diede una pulita; difatti lo sapevo!

Fu una giornata dura, un momento teso per resistere, ma l’animo era forte e la nuca rigida. Non possedevano niente tranne i vestiti che avevano addosso; ah sì, il vetro di alchimia appena comprato e riempito con i resti raschiati da terra; il tesoro che prometteva ma non manteneva. Valdemar Daae lo nascose nel petto, prese poi il suo bastone in mano e il signore, ricco un tempo, uscì con le sue due figlie dalla proprietà di Borreby. Io soffiai aria fredda sulle sue guance ardenti, accarezzai la sua barba grigia e i suoi lunghi capelli bianchi, cantai meglio che potei: -Ffu-u-o-ri! scomparire! scomparire! – Fu la fine della ricca magnificenza. Ide e Anna Dorothea camminavano accanto a lui, ciascuna da un lato: Johanne si girò nel portone, a che cosa poteva servire, la fortuna non volle girare. Ella guardò le pietre rosse del muro della fortezza di Marsk Stig, se pensava alle figlie di lui: “La maggiore prese per mano la più piccola, E viaggiarono per il vasto mondo!”. Le veniva in mente quella canzone; – qui erano in tre, – vi era il padre con loro! – Camminavano per la via dove erano passati in carrozza, facevano la strada dei mendicanti col padre, fino al campo di Smidstrup, fino alla casa di travi e argilla, affittata per dieci marchi all’anno, il nuovo maniero con le pareti spoglie e i vasi vuoti. Le cornacchie e le taccole volavano sopra di loro gridando, come per scherno: “Fuori dal nido! Fuori dal nido! Frò! frò!” come gli uccelli gridarono nel bosco di Borreby quando gli alberi vennero abbattuti. Il Signor Daae e le sue figlie lo sentirono perfettamente. Io soffiai intorno alle orecchie, non era possibile ascoltarlo.

Poi entrarono nella casa di travi e argilla sul campo di Smidstrup, e io corsi affrettato sopra pantani e campi, attraverso cespugli nudi e scarne foreste verso le distese di acque, altri paesi. Ffu-u-o-ri! scomparire! scomparire questo in tutti questi anni!”

Come andarono le cose per Valdemar Daae, come andarono per le sue figlie, il Vento racconta: “L’ultima che vidi, sì, l’ultima volta, fu Anna Dorothea, il giacinto pallido: ora era vecchia e curva, era passato mezzo secolo. Visse più a lungo. Ella sapeva tutto. Sulla brughiera vicino alla città di Viborg, vi era la fattoria nuova e bella del decano del capitolo con pietre rosse e con la punta del muro laterale a gradoni; il fumo usciva tutto denso dal comignolo. La dolce signora e le sue figlie sedevano nella veranda a guardare sopra alla spina Christi che peadeva la brughiera marrone -! Che cosa cercavano lì con lo sguardo? Cercavano il nido della cicogna là fuori sulla casa cadente. Il tetto era di muschio e semprevive, quello che ce n’era, quello che soprattutto servì come copertura fu il nido della cicogna, ed esso fu l’unico a essere mantenuto, e la cicogna ebbe la manuntenzione. Era una casa da guardare, non da toccare; io dovevo andare con cautela, disse il vento. “La casa fu lasciata per il nido di cicogna, altrimenti aveva aspetto spaventoso per la brughiera. La famiglia del decano non volle cacciare via la cicogna, così la catapecchia ebbe il permesso di rimanere e la poveretta lì dentro ebbe il permesso di starci; ella poteva ringraziare l’uccello egiziano per questo (oppure fu un ringraziamento perché ella una volta pregò per il nido del suo nero fratello selvatico nel bosco di Borreby?) Ella, allora, poveretta, era una giovane bambina, un giacinto fine e pallido nel nobile orto. Ella si ricordava tutto: Anna Dorothea.” “Oh! oh! -, sì, gli uomini sono capaci di sospirare come il vento in mezzo ai giunchi e alle canne. Oh! Nessuna campana suonò sulla tua tomba, Valdemar Daae! Gli scolari poveri non cantarono quando il signore di Borreby dei giorni passati fu messo sotto terra! -Oh, tutto finisce, anche la miseria! La sorella Ide divenne la moglie di un contadino, e fu per nostro padre la prova più dura! Il marito della figlia, un misero servo, cui il proprietario del maniero poteva per punizione far montare il duro cavallo di legno! Ora sarà sotto terra? e anche tu? Ide! – Ebbene sì! ebbene sì! e ancora non è finita, povera me, tutta vecchia! Povera me, tutta misera! Libera me, potente Cristo!”

Questa fu la preghiera di Anna Dorothea nella misera casa dove aveva il permesso di rimanere a causa della cicogna. “Io mi occupai della più sana delle sorelle!” disse il vento, “le si tagliarono vestiti, secondo il suo animo alla nascita! venne come misero garzone per arruolarsi dal capitano; era di poche parole, dall’aria ingrugnata, ma disposta a fare il suo lavoro; però non era capace di arrampicarsi; così io la gettai col soffio in mare, prima che qualcuno avesse capito che fosse femmina, e questo è stato senz’altro ben fatto da parte mia!” disse il Vento. “Fu una mattina di Pasqua come quella quando Valdemar Daae pensava di aver trovato l’oro rosso, quando sentii da sotto il nido della cicogna tra le pareti fragili, un canto di salmi, l’ultimo canto di Anna Dorothea. Non c’erano finestre di vetro, c’era soltanto un buco nella parete; il sole entrò come una zolla d’oro e si pose lì dentro; fu un vero splendore! I suoi occhi si spezzarono, il suo cuore si spezzò! L’avrebbero fatto lo stesso, anche se il sole quella mattina non l’avesse illuminata.

La cicogna le diede un tetto per la morte, e io cantai sulla sua tomba!” disse il vento, “cantai sulla tomba di suo padre, io so dove sta e dove sta la tomba di lei, altrimenti proprio nessuno lo saprebbe. Tempi nuovi, altri tempi! la vecchia via pubblica finisce in un campo chiuso, tombe protette diventano strade maestre trafficate, e ben presto arriva il vapore con la sua fila di carrozze a rugliare sopra le tombe, dimenticate come lo sono i nomi.

Questa è la storia di Valdemar Daae e delle sue figlie. Raccontatela meglio, voialtri, se potete!” disse il Vento rigirandosi. E così dicendo era sparito.

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