La scuola riapre: è allarme tra i pediatri

Laura de Laurentiis A cura di Laura de Laurentiis Pubblicato il 04/09/2020 Aggiornato il 04/09/2020

La scuola sta per riaprire i battenti: se il bambino manifesterà anche un solo sintomo riconducibile all’infezione CoVid-19 dovrà essere messa in atto una procedura piuttosto complessa che ha suscitato lo sconcerto dei pediatri. Ma l’esperto dell’ISS afferma che, almeno per ora, non ci sono alternative.

La scuola riapre: è allarme tra i pediatri

La scuola sta per riaprire e i pediatri sono preoccupati per via delle direttive, valide in tutta Italia, emanate dall’Istituto superiore di sanità con l’intento di consentire un rientro in piena sicurezza. Ecco le nuove linee guida, che saranno da applicare fin dall’inizio dell’anno scolastico che sta per cominciare, pensate per minimizzare il rischio di diffusione del coronavirus.

Basta un sintomo e si va (e sta) a casa

A scuola, durante le ore di lezione, il bambino dovrà essere isolato a partire dal momento in cui dovesse manifestare uno solo di questi sintomi:

  • febbre
  • tosse
  • cefalea
  • sintomi gastrointestinali (nausea/vomito, diarrea)
  • Mal di gola
  • Difficoltà respiratoria
  • Dolori muscolari
  • Rinorrea (secrezioni dal naso/raffreddore/congestione nasale).

L’obiezione dei pediatri

I pediatri hanno osservato che questa indicazione è in contrasto con quanto imposto lo scorso marzo dalle linee guida elaborate per l’emergenza pandemia. In esse si imponeva ai medici di sospettare il CoVid-19 in presenza di almeno due (e non uno) dei sintomi indicati. Esiste dunque una discrepanza tra marzo e oggi, ma nell’odierno documento dell’ISS non è specificato che la linea guida di marzo è stata superata.

Cosa si fa a scuola a fronte di un sintomo

Nel momento in cui l’insegnante dovesse rilevare uno dei sintomi elencati, dovrà essere seguita questa procedura:

  • L’insegnante dovrà chiamare il referente CoVid della scuola, una figura interna all’istituto, debitamente formata grazie a un corso ad hoc.
  • Il referente CoVid accompagnerà il bambino in un’ “aula CoVid”, cioè lo dovrà allontanare dalla classe e, contestualmente, chiamare i genitori affinché lo vengano a prendere per portarlo a casa.
  • I genitori, una volta giunti a casa, dovranno contattare per telefono il pediatra di famiglia (anche chiamato di libera scelta). Secondo le disposizioni ministeriali di marzo, che hanno suggerito di sospendere le visite in ambulatorio, il pediatra al telefono prima ascolterà quanto gli viene riferito in relazione ai sintomi manifestati dal bambino, dopodiché si troverà di fronte a due opzioni:
  1. Invitare i genitori ad attendere l’evolvere della situazione
  2. Sospettare immediatamente di trovarsi in presenza di infezione da SARS-CoV-2

Gli scenari di sviluppo possibili nel primo caso sono due:

  • I genitori attendono: se il sintomo (o i sintomi) scompaiono entro tre giorni, il terzo giorno possono riportare il bambino a scuola con un’autocertificazione in cui si afferma che è guarito, sta bene, non ha più i sintomi per i quali era stato allontanato da scuola.
  • Il bambino non guarisce nel giro di tre giorni, quindi non può tornare a scuola, perché appunto non può farlo fino a quando manifesta sintomi. A questo punto i genitori devono obbligatoriamente chiamare di nuovo il pediatra perché dopo tre giorni di assenza occorre comunque il suo attestato per la riammissione a scuola. Il pediatra potrà stilare l’attestato alla scomparsa dei sintomi, sempre basandosi su quanto gli viene riferito al telefono. Nell’attestato dovrà essere che “il bambino/studente può rientrare a scuola poiché è stato seguito il percorso diagnostico-terapeutico e di prevenzione per CoVid-19 come disposto da documenti nazionali e regionali”. Allo stesso tempo dovrà dichiarare che “il bambino è stato colpito da patologia diversa da CoVid-19”. La possibilità di rilasciare una simile dichiarazione, se si vuole agire in modo eticamente rigoroso, nel rispetto della legge, viene consentita solo dall’esito negativo del tampone, che si può ottenere solo prescrivendo il tampone. A questo punto il pediatra, trovandosi nella necessità di prescrivere il tampone, si verrà a trovare automaticamente nella condizione di “sospettare il CoVid-19”. Questa eventualità impone, (per legge) di segnalare il bambino al Dipartimento di Prevenzione dell’azienda sanitaria di riferimento (segnalazione all’Ats o all’Asl o all’ASST o qualunque altra sia la sigla), a cui spetta predisporre l’esecuzione del tampone sul bambino.

Lo scenario di sviluppo possibile nel secondo caso è uno:

Il pediatra che in qualunque momento dovesse sospettare che i sintomi manifestati dal bambino possano essere riconducibili a CoVid, dovrà seguire questo iter:

  • Contattare il Dipartimento di Prevenzione dell’Azienda sanitaria territoriale, il quale è l’unico organismo preposto ufficialmente all’effettuazione del tampone.
  • Ricordare all’intero nucleo familiare del bambino l’obbligo di legge di mettersi in quarantena, in teoria per 14 giorni, in pratica fino all’esito eventualmente negativo del tampone effettuato sul bambino.

LO STRANO CASO DELL’ATTESTATO

Contrariamente alla prassi consolidata per le riammissioni a scuola in caso di particolari malattie infettive (per esempio, varicella, salmonellosi, morbillo), ai pediatri oggi le indicazioni ministeriali richiedono non già il tradizionale certificato, ma un’attestazione. La differenza tra le due diciture sottende una grande diversità dal punto di vista legale:

il certificato di riammissione, per legge, può essere stilato solo dopo aver visitato di persona il bambino.

L’attestazione è invece un documento in cui il pediatra sostanzialmente può affermare che il bambino non è ammalato di CoVid, semplicemente dopo averlo dedotto in base ai segnali di guarigione e di scomparsa dei sintomi riferiti dai genitori al telefono. In realtà scienza e coscienza vorrebbe che lo facesse in base all’esito negativo del tampone, tuttavia per ottenere questo risultato è irrinunciabile prescrivere il tampone, che in automatico esprime il sospetto di presenza di Covid-19, che ha come conseguenza l’obbligo di quarantena per i contatti stretti (in primis, i genitori).

IL GRANDE RISCHIO

Dall’apertura della scuola, ogni starnuto, ogni colpo di tosse, ogni alterazione della temperatura, ogni crisi di mal di testa rilevati a scuola potrebbero paralizzare intere famiglie, perché potrebbe costringere anche i genitori alla quarantena, nel caso in cui il pediatra si trovasse nella necessità di richiedere il tampone. E questa necessità si porrà ogni qualvolta, per la riammissione a scuola, dovrà attestare che il bambino “non è ammalato di CoVid-19”. Diversamente non potrà fare, visto che la malattia può essere esclusa in modo responsabile (e conforma alla legge) solo se c’è un tampone negativo a comprovarlo.  

3 DOMANDE ALL’ESPERTO DELL’ISS

Le perplessità dei pediatri e dei genitori riguardanti le linee guida a cui attenersi alla riapertura della scuola sono tante. Ne abbiamo parlato con il dottor Paolo D’Ancona, infettivologo dell’Istituto superiore di sanità (ISS) che ha partecipato alla loro stesura.

In relazione al tampone, mediamente tra la richiesta, l’esecuzione e l’attesa dei risultati trascorrono da 7 a 10 giorni. I pediatri temono che in questo modo si rischi di bloccare l’intero ingranaggio sociale, anche tenendo conto del fatto che i bambini vanno soggetti spesso a raffreddore. Cosa ne pensano le autorità sanitarie al riguardo?

<<In molte realtà l’effettuazione e la lettura dei tamponi richiede tempi molto più brevi: intorno ai due-tre giorni. Del resto, almeno per ora, sono questi lo strumento diagnostico più affidabile di cui disponiamo. Attualmente la priorità è quella di contenere il più possibile la diffusione del Coronavirus. Altre strategie sono state valutate, ma nessuna può essere efficace quanto quella di allontanare dalle aule i bambini che potrebbero avere sviluppato l’infezione Covid-19. Siamo perfettamente consapevoli che le linee guida appena elaborate sono perfettibili, tuttavia in un momento così critico ci si deve accontentare del minore dei mali. Sulla quarantena delle famiglie c’è ancora da ragionare, se sia necessaria prima dei risultati del test>>.

I pediatri ritengono che la soluzione potrebbe essere rappresentata dai kit rapidi per l’esecuzione dei tamponi, che a differenza dei tamponi classici, che individuano il materiale genetico del virus (RNA), ne identificano solo una particella (antigene). Forniscono il risultato in 15 minuti e potrebbero essere effettuati direttamente dai pediatri. Questo significherebbe evitare la quarantena alle famiglie, con quel che ne potrebbe conseguire in termini di assenze dal lavoro. La Food and Drugs Administration (FDA) li ha approvati di recente, mentre in Italia si stenta a validarli: a oggi solo le regioni Lazio e Veneto li hanno approvati. Perché?

<<Non è escluso che in un prossimo futuro i tamponi rapidi verranno autorizzati per la diagnosi da tutte le regioni, perché ne verrà riconosciuta anche a livello governativo l’utilità, legata alla praticità d’uso e alla velocità di risposta, pur con i limiti che per ora presentano. Rimarrà infatti sempre il problema della loro affidabilità che dipende sia dalla sensibilità sia dalla specificità. La prima è la capacità massima di intercettare l’agente infettivo che si ricerca, la seconda di identificare che si tratta proprio di quello che si sta cercando. I tamponi rapidi oggi hanno solo l’85 per cento di sensibilità, un po’ più alta la specificità. Questo però significa che su 100 tamponi eseguiti 15 potrebbero dare dei “falsi negativi”. E’ vero però che anche i tamponi attualmente utilizzati (per la ricerca dell’RNA del virus) possono avere un margine di errore, perché l’attendibilità del risultato dipende in parte dalla correttezza dell’esecuzione, cioè è “operatore-dipendente”. La specificità però è ottima, quindi i positivi sono realmente positivi, non ci sono quindi “falsi positivi” e questo vale anche per i tamponi rapidi di attuale generazione>>.

Anche per il prossimo autunno i pediatri dovranno fare diagnosi via telefono, perché è ancora in vigore la legge emanata lo scorso marzo, che ha imposto di non ricevere i bambini in ambulatorio. Ma questo si scontra con le regole di deontologia professionale, secondo cui per porre una diagnosi occorre visitare il bambino. Le due indicazioni sono inconciliabili. Come mai non è stata ancora risolta questa incongruenza, visto oltretutto che il Coronavirus pare si sia indebolito?

<<Siamo in uno stato di emergenza, dettato da una circostanza straordinaria. Imporre ai pediatri di chiudere gli ambulatori a inizio pandemia era necessario in quanto non si sapeva quale sarebbe stata l’evoluzione della pandemia. Ma attenzione: nessuno studio scientificamente accettabile ha dimostrato che il coronavirus sia meno aggressivo di quanto non fosse la scorsa primavera. E’ solo che la circolazione del virus è diminuita è diminuita, grazie alle misure di prevenzione e a tutte le cautele che abbiamo adottato. Siamo consapevoli che il lungo e difficile lockdown ha funzionato. Non possiamo prevedere cosa accadrà nelle prossime settimane. Dobbiamo avere pazienza, iniziare l’anno scolastico in sicurezza e tranquillità, aspettando di capire cosa succederà dopo la riapertura della scuola. Qualche chiusura di classi o scuole è comunque da prevedere, ma bisognerà giudicare questa eventualità alla luce dell’intero contesto. E’ questo il nostro obiettivo: riuscire a inquadrare la situazione di una singola eventualità all’interno di quanto accade globalmente>>.

Ottimismo sì ma con prudenza 

Il professor Giuseppe Remuzzi in una recentissima intervista ha invitato a “rimettere nel cassetto ansia e isteria, perché a sua avviso la fase epidemia è sostanzialmente finita. Il dottor Paolo D’Ancona, infettivologo dell’Istituto superiore di sanità al riguardo afferma: <<Condivido l’ottimismo e il tentativo di tranquillizzare. Il problema è che oggi i dati ci dicono che la condizione è di preoccupazione, non tanto perché la situazione sia grave nel “qui e ora” (come ha affermato il professor Remuzzi) ma perché non siamo sicuri che non lo possa diventare. Noi facciamo passi prudenti, la responsabilità è alta e a livello istituzionale occorre dare il messaggio giusto>>.

Consulenza del dottor Leo Venturelli, pediatra, specialista in Igiene e Medicina preventiva, responsabile dell’Educazione alla salute della Società italiana di pediatria preventiva e sociale, Garante dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza di Bergamo.

Fonti / Bibliografia

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