Picchiare i bambini è reato?

Avvocato Alessandro Lacchini A cura di Avvocato Alessandro Lacchini Pubblicato il 12/08/2018 Aggiornato il 09/10/2018

Nei paesi più evoluti il diritto alla sculacciata è stato abolito. In Svezia addirittura dal 1966.

Una domanda di: Micaela
Caro avvocato,
c’è una domanda che mi sta davvero a cuore: alcuni anni fa avevo conservato un pezzo di un articolo in cui si sosteneva che picchiare un bambino, ANCHE SOLO CON UNO SCAPPELLOTTO è reato. Era riportata anche la legge. La mia domanda è: ma c’è del vero che anche legalmente non si può picchiare (neanche piano) un bambino? Come ci si deve comportare davanti a genitori che danno sberle ai loro bambini?

Alessandro Lacchini
Alessandro Lacchini

Cara Micaela,
il quesito che mi sottopone, come tutti quelli in cui valutazioni di diritto, morali ed etiche si intrecciano, è particolarmente complesso.
L’analisi della differente regolamentazione della materia da parte dei paesi esteri, evidenzia come il loro divieto o ammissibilità siano strettamente correlate alla percezione che delle punizioni corporali si ha a livello sociale: ne è prova che i paesi storicamente all’avanguardia sono quelli che per primi hanno posto il divieto, tanto in ambito familiare, quanto scolastico.
E così, nella progressista Svezia, l’abolizione del “diritto alla sculacciata” risale addirittura al 1966, con relativa espressa proibizione di legge a far data dal 1979; il medesimo orientamento si è presto diffuso in tutto il nord Europa (Finlandia, 1983 – Norvegia, 1987 – Austria, 1989 – Danimarca, 1997) e, progressivamente, nella quasi totalità del continente europeo.
Ad oggi, il divieto di punizioni corporali in ambiente scolastico è presente in tutta Europa; per quanto concerne l’ambito familiare, al contrario, esistono ancora diversi ordinamenti nei quali la punizione fisica non è oggetto di uno specifica proibizione. L’Italia è tra questi.
Nel nostro paese la legge non stabilisce in modo esplicito se sia lecito dare uno schiaffo ai propri figli; l’art. 571 c.p. (Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina), infatti, si limita a stabilire che “Chiunque abusa dei mezzi di correzione o di disciplina in danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito, se dal fatto deriva il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente”. La pena prevista in tale evenienza è la reclusione fino a sei mesi. Se dal fatto deriva una lesione personale, si applicano le pene stabilite per il reato di lesioni personali e relative aggravanti, ridotte a un terzo; se ne deriva la morte, si applica la reclusione da tre a otto anni.
Viene esplicitamente ammesso, dunque, l’uso di mezzi di correzione o di disciplina, decretando l’illegittimità del loro abuso.
È evidente come il confine tra “uso” ed “abuso” sia molto labile e soggettivo, così come molto poco scientifico e passibile di diverse interpretazioni il concetto di “pericolo di una malattia nel corpo o nella mente”. Ciò che è senz’altro sanzionato, sono le punizioni corporali che esitino in lesioni personali: tuttavia, e ciò rappresenta un probabile retaggio di un passato in cui “tutto era consentito”, in tale evenienza le pene sono ridotte ad un terzo di quelle previste per il reato ordinario di lesioni personali, quasi a voler significare che, ancor oggi, tali lesioni sono considerate la conseguenza ingiusta di un atto giusto.
L’orientamento “incerto” del legislatore (così come della giurisprudenza, come vedremo nel prosieguo), discende dalla necessità, di non facile attuazione, di contemperare il diritto/dovere di istruire e di educare un figlio (art. 30 Costituzione), esercitando su di lui la responsabilità genitoriale (art. 316 c.c.), con il diritto del bambino ad essere educato, istruito ed assistito moralmente dai genitori, riservando loro il dovuto rispetto. Così l’art. 315 bis c.c. stabilisce che “Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni. Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti. Il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano. Il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa”.
Come detto, la giurisprudenza non ha stabilito in modo sicuro e prevedibile ove si collochi il confine tra mezzo di correzione lecito ed abuso, dovendosi in ogni singola fattispecie valutare se lo schiaffo (o la violenza psicologica, in tutto e per tutto equiparabile a quella fisica), sia punizione proporzionata alla trasgressione, se rientri in un contesto di reiterazione ed abitualità, se sia violento o abbia esclusivo valore simbolico.
Così la Cassazione sottolinea che “gli atti di minima valenza fisica o morale necessari per rafforzare la proibizione, non arbitraria né ingiusta, di comportamenti oggettivamente pericolosi o dannosi che rispecchiano la sottovalutazione del pericolo, la disobbedienza gratuita, oppositiva e insolente sono legittimi” (Cass. sent. n. 42648/2007 del 28.06.2007); nello stesso tempo, tuttavia, se un mezzo di correzione è violento o arbitrario, esso contrasta con il suo scopo educativo, sia perché si oppone alla dignità della persona, sia perché si contraddice con la finalità di perseguire lo sviluppo armonico della personalità (Cass. sent. n. 25790/2014 del 16.05.2014).
Certamente da escludersi, dunque, il ricorso a strumenti contundenti, quali la cinghia, la cintura o i famigerati zoccoli, mattarelli e battipanni della mamma, giudicati inidonei a garantire dal pericolo di una lesività extra misura; ugualmente illegittimo il ricorso a pugni, calci, graffi, tirate di capelli e pizzicotti, così come le ingiurie o le intimidazioni, condotte tutte accomunate da una volontà lesiva (fisica o morale che sia) del tutto incompatibile con l’intento educativo; fuori di dubbio è anche che il reato di cui al citato art. 571 c.p. (Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina) non si configura se il figlio è maggiorenne, perché al raggiungimento della maggiore età si conclude il diritto-dovere dei genitori di educarlo.
Un piccolo florilegio di decisioni giurisprudenziali potrà essere utile ad inquadrare meglio il tema. Eccolo:
determina abuso punibile: imporre alla figlia un taglio di capelli e la si afferra con la forza per sottoporvela mentre la bambina si dimena, mettendo a rischio la sua incolumità; legare un figlio di due anni alla tavola durante i pasti, costringendolo a mangiare contro la sua volontà; rinchiudere un figlio in un luogo buio per punizione; percuotere un figlio con una bacchetta sulle orecchie o sui glutei, provocandogli dei lividi; umiliare o rimproverare continuamente il figlio anche per futili motivi, offendendolo o facendolo oggetto di violenze fisiche.
Alla luce di quanto precede, cara Micaela, il mio parere sul caso che ha menzionato è che il comportamento del papà in questione possa considerarsi censurabile: non depone certamente a favore del ricorso alla punizione corporale la giovanissima età del bimbo/a, che dovrebbe indurre alla massima tolleranza, così come l’abitualità del gesto e, ancora, il contesto pubblico in cui i fatti si verificano; non che le percosse entro le mura domestiche siano meno dolorose, ma nel caso di specie potrebbe aggiungersi il sentimento di umiliazione per essere punito davanti agli astanti, tra cui i compagni di gioco.
Quanto poi al diritto/obbligo di intervento in siffatte situazioni per chi assiste a simili comportamenti, sono necessari alcuni chiarimenti:
il nostro sistema penale non punisce la mera connivenza (da intendersi come inerzia di fronte ad un comportamento illecito): non esiste infatti una regola generale che imponga ai cittadini di intervenire in qualunque caso essi vengano a conoscenza di un illecito.
Esistono però delle eccezioni, determinate dall’eventualità in cui un cittadino si trovi a ricoprire una determinata posizione di garanzia nei confronti di qualcuno o qualcosa: in tale evenienza, sorge l’obbligo giuridico di impedire un evento dannoso a carico del soggetto o del bene giuridico garantito.
Ne sono un esempio i rappresentati delle forze dell’ordine, i quali devono impedire e prevenire la commissione di reati in qualità di garanti dell’ordine pubblico; parimenti i genitori, sui cui grava l’obbligo di protezione dei figli. E così, l’inerzia innanzi alle violenze subite da un figlio è fonte di responsabilità penale per omissione: secondo la legge, infatti, non impedire un evento, pur avendone l’obbligo giuridico, equivale a compierlo.
Resta da aggiungere che assistendo passivamente al compimento di un reato, senza che la propria presenza ne agevoli la commissione, né rafforzi la determinazione del colpevole, si configurerà una mera connivenza, generalmente non punibile secondo la legge. Viceversa, se la sola presenza valga a rafforzare la volontà criminosa dell’autore del reato, influendo concretamente sulla commissione del delitto, autore e spettatore risponderanno in concorso nel reato commesso.
Ritornando al nostro caso, salvo che gli astanti non rivestano una delle indicate posizioni di garanzia, non vi sarà un obbligo di intervenire nei confronti del padre violento ma, certamente, ciascuno dei presenti avrà la facoltà di allertare le autorità giudiziarie.
A disposizione, come sempre, per eventuali chiarimenti, Le invio i miei migliori saluti.

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