Test del DNA fetale: prima o dopo il bi-test?

Dottoressa Faustina Lalatta A cura di Dottoressa Faustina Lalatta Pubblicato il 09/05/2023 Aggiornato il 18/05/2023

Lo screening del primo trimestre di gravidanza (test combinato e test del DNA fetale), che rappresenta il "percorso non invasivo", deve seguire la sequenza sancita dalle Società scientifiche, che prevede l'esecuzione prima del test combinato e dopo, eventualmente, del test del DNA fetale.

Una domanda di: Angela
Gentile dottoressa, ho deciso di fare il test fetal dna, le chiedo se è necessario fare comunque prima il bi-test. Grazie.
Faustina Lalatta
Faustina Lalatta

Gentile signora, il suo quesito mi consente di fare chiarezza sulla sequenza corretta a cui attenersi per i test di screening che, sebbene definita da molti anni delle Società Scientifiche, viene spesso disattesa. Lo screening del primo trimestre (test combinato e test del DNA fetale) costituisce il cosìddetto “percorso non invasivo” e la sequenza corretta non può che prevedere prima il test combinato e successivamente l’eventuale esecuzione della NIPT (test del DNA fetale). Il test combinato rappresenta attualmente il metodo universale e raccomandato di screening delle anomalie cromosomiche. Dovrebbe essere offerto a tutte le donne nel primo trimestre di gravidanza. Il test si definisce combinato perchè, negli ultimi 15 anni, è emerso chiaramente come sia utile includere, oltre all’età materna, e in aggiunta alla misurazione della translucenza nucale (NT), la valutazione di altri indicatori, quali la presenza o meno dell’osso nasale fetale e la valutazione del flusso sanguigno attraverso la valvola tricuspide e nel dotto venoso. L’esecuzione di uno screening combinato (quindi un test con tutti i parametri) per la sindrome di Down a 11-13 settimane permette di sospettare anche la maggior parte dei feti affetti dalla trisomia 18 (sindrome di Edwards) e dalla trisomia 13 (sindrome di Patau). Infine, è stato dimostrato che la misurazione della NT rappresenta un valido metodo per identificare feti a rischio per altre anomalie cromosomiche, malformazioni congenite maggiori e sindromi genetiche. Vediamo gli esiti di questo test: sono sostanzialmente tre: 1. alto rischio (allarmante), a questo riscontro segue sempre l’indicazione alla diagnosi invasiva, cioè la villocentesi o l’amniocentesi per poter condurre un esame diagnostico completo. Ci tengo a sottolineare che questo percorso di approfondimento diagnostico è totalmente gratuito nel nostro Paese. 2. basso rischio (rassicurante). 3. rischio intermedio (neutrale). Le gestanti che ricevono un basso rischio o un rischio intermedio al test combinato (ma solo loro!), possono valutare l’opportunità di integrare questo valore con la il test del DNA fetale su sangue materno (NIPT). Infatti il test combinato ha un valore predittivo positivo (cioè la sua capacità di individuare i feti con sindrome di Down) dell’85-90%, non di più. Un embrione con la sindrome di Down ogni 10 sfugge al test combinato. Questo embrione può essere identificato con il test del DNA fetale. La NIPT è disponibile da una decina d’anni. Prevede l’analisi quantitativa o qualitativa dei frammenti di DNA che sono presenti nel plasma materno. Questo DNA deriva principalmente da cellule di villi coriali (placenta) che, anche in condizioni fisiologiche, migrano nella circolazione materna rilasciando il DNA. Ad oggi, la principale applicazione riguarda l’identificazione della trisomia 21, 13 e 18, oltre all’identificazione del sesso fetale e delle aneuploidie dei cromosomi sessuali e la delezione 22q nella pazienti senza allarmi al test test combinato. Recentemente l’evoluzione tecnologica ha permesso di espandere il pannello delle anomalie che è possibile cercare; sono stati messi a punto pannelli che analizzano singole microdelezioni associate ad alcune sindromi clinicamente riconoscibili (delezione 1p36, delezione 5p, delezione 15q ecc,), tuttavia il processo di validazione è ancora in corso. E’ importante sottolineare che attualmente l’analisi NIPT (Non-Invasive Prenatal Test) è considerata un test di screening e non un’analisi diagnostica, gli esiti allarmanti vanno validati dalla diagnosi invasiva tradizionale. La sua incredibile diffusione è motivata, oltre che dalla spinta commerciale particolarmente intensa, anche dall’assenza di rischio per il feto, trattandosi di una procedura non invasiva. Ma, se al test combinato a basso rischio può mancare l’identificazione di un embrione con la sindrome di Down, ad un DNA fetale a basso rischio, senza test combinato possono sfuggire più di 100 sindromi, accomunate dalla translucenza nucale di valore elevato. Quindi, concludendo, il test combinato suddivide la popolazione delle gestanti in tre fasce di rischio. Senza questo primo passaggio, il test del DNA fetale non è indicato. L’evenienza peggiore si ha infatti per le coppie che eseguono subito il test del DNA, si rassicurano (esageratamente) della assenza di patologie e ricevono invece un alto rischio al test combinato. Per queste coppie è necessario riprendere il percorso dall’inizio ed ignorare l’esito del DNA fetale, conquistato magari ad alto prezzo. Cari saluti.

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